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  • samantalongo

Relazioni difficili?

Molto spesso nella mia attività mi confronto ogni giorno con persone che hanno una ferita antica: non è detto che ci sia stato in passato un evento traumatico in senso oggettivo, qualcosa che abbia modificato in maniera inevitabile l’esistenza dell’individuo; più frequentemente si tratta di una relazione disfunzionale con un genitore che va, o è andata, a pregiudicare la modalità con cui ognuno di noi costruisce il senso di sé. Alberto Pellai dice “Noi siamo relazioni. È nelle relazioni che costruiamo il senso di noi. È nelle relazioni che cresciamo, cambiamo, diventiamo”.


Diamo per scontato che la relazione con i nostri genitori sia positiva, che ci faccia bene, ma purtroppo non è così. Ci sono padri e madri che, senza rendersene conto, non riescono a soddisfare i bisogni emotivi ed affettivi dei propri figli perché in qualche modo hanno ereditato, a loro volta dai loro genitori, delle modalità disfunzionali relazionali.

Genitori che non fanno sentire il proprio figlio desiderato e amato, genitori non disponibili e impazienti, svalutanti, assenti, iper-impegnati o coinvolti nella relazione con un altro figlio ritenuto perfetto, a scapito del rapporto con il figlio che non incarna quell’ideale di adeguatezza, insomma adulti incapaci di sintonizzarsi con il sentire del bambino/adolescente. In questo modo il mondo non viene sentito dal figlio come un luogo bello e sicuro, ma un posto ostile che compromette l’accesso alla felicità, poiché la capacità di stare in relazioni positive e costruttive con gli altri è direttamente proporzionale all’accudimento, all’amore e all’affetto che ci ha nutrito e coccolato durante la nostra vita da figli.

È a partire dall’interazione del bambino con il proprio ambiente, in particolare dal legame materno e paterno, che si costruiscono le rappresentazioni mentali che guidano la percezione e l’interpretazione degli eventi da parte dell’individuo, schemi mentali che permettono di fare previsioni e crearsi delle aspettative su ciò che concerne la propria vita relazionale.


Capita così che ci ritroviamo ad essere guidati da alcuni schemi prevalenti:

- delusione: gli altri tendono ad essere percepiti come inaffidabili rispetto alle loro dimostrazioni di affetto, poiché prima o poi l’altro ci deluderà con la conseguenza di una nostra rilevante sofferenza emotiva;

- accudimento compulsivo: è presente una disposizione compulsiva a prendersi cura degli altri, connessa ad una percezione di sé in termini di bassa amabilità personale: abbiamo il timore che solo occupandoci dei bisogni degli altri potremmo guadagnarci e meritarci l’amore;

- agonismo compulsivo: un grande senso di inadeguatezza porta inevitabilmente l’individuo ad entrare in competizione con sé stesso e con gli altri per dare un senso alla propria vita e per compensare parti di sé percepite come inadeguate;

- bassa autonomia personale: si ha la tendenza a costruire nelle relazioni rapporti di dipendenza con persone ritenuti forti e mature a cui delegare scelte, giudizi, decisioni; questo schema è legato ad un concetto di sé come debole ed incapace;

- dipendenza affettiva: disposizione a costruire relazioni affettive fusionali ed esclusive, considerate indispensabili per dare un senso alla propria vita;

- sensibilità al giudizio: attitudine ad avere aspettative negative rispetto al giudizio altrui.


Qualunque sia il tuo schema, se hai o hai avuto genitori che ti hanno fatto soffrire, sappi che il passato non si può cambiare, ma è possibile modificare il presente ed il futuro attraverso un percorso psicologico di consapevolezza, perché come scrive Pellai “Se prendiamo consapevolezza del buio che ha abitato una parte della nostra vita, allora potremmo trasformare questa consapevolezza in luce”.




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